La calibrata controrappresaglia di Israele in territorio iraniano accompagnata dalla notizia che l’Iran non contempla un’ulteriore risposta segnala che, almeno per ora, la de-escalation è nell’interesse di entrambi i paesi. Dopo il 13 aprile, una nuova e più pericolosa equazione regola i rapporti fra Stato ebraico e Repubblica Islamica: è quella in cui nessuno dei rispettivi territori è davvero inviolabile e dove la logica della ritorsione equivalente (il cosiddetto “tit for tat”) è stata sdoganata. Al punto che secondo diversi analisti mediorientali, attacchi occasionali al territorio nemico nei momenti di massima tensione fra Tel Aviv e Teheran, potrebbero ora diventare la norma. Con l’attacco israeliano nel centro dell’Iran, a nord della città di Isfahan nei pressi dell’ottava base aerea dell’aeronautica iraniana a Shekari, si è quindi chiusa una nuova prima fase del conflitto israelo-iraniano, ovvero quella in cui entrambe le leadership dovevano dimostrare al rivale e al loro fronte interno di essere capaci e disposti a passare all’offensiva, a combattere direttamente l’uno contro l’altro.
Cambiamenti
Ma proprio perché la soglia di aggressività si è ormai drammaticamente innalzata, l’attacco iraniano del 13 aprile e quello israeliano di ieri valgono soprattutto come esempi di “diplomazia della violenza” in cui le due potenze regionali si scambiano messaggi a suon di missili e droni. Una lettura confermata anche da alcune indiscrezioni riportate da un funzionario israeliano che sotto anonimato ha precisato al Washington Post che l’operazione lampo israeliana nella notte di venerdì è «intesa a segnalare all’Iran che Israele ha la capacità di colpire all’interno del paese». Non di più. Una volontà reciprocata anche sul fronte iraniano: una fonte di intelligence regionale a conoscenza della potenziale reazione dell’Iran all’attacco israeliano avrebbe dichiarato alla Cnn che gli attacchi diretti da Stato a Stato tra i due nemici sono “finiti”.
Allontanarsi dal precipizio dell’escalation serve alle due parti anche per non distrarsi dalle rispettive e delicate questioni domestiche.
Teheran, dalla sua, si sta avvicinando al momento più critico dalla sua rivoluzione di 45 anni fa: il sistema politico è alle prese con una transizione storica fra la prima e la seconda generazione. Da un lato quella emersa dalla rivoluzione del 1979 e che ancora esprime la leadership con la guida dell’ottantacinquenne Ali Khamenei, teocratica, ideologica e con un approccio pragmatico e di pazienza strategica volta ad evitare un confronto diretto con Israele. Dall’altro quella legata ai ranghi militari, all’industria e al commercio e con una visione più radicale, muscolare e aggressiva verso Israele e l’Occidente.
Ci sono insomma ragioni interne ed esterne sufficienti al momento affinché entrambi vogliano mettere un punto a questo capitolo del confronto. Per farlo hanno immaginato di dover convincere l’altro che la deterrenza è stata ripristinata. Almeno fino al prossimo episodio.